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La strada di Smirne

de Antonia Arslan

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Quando Antonia Arslan presentò in libreria “La strada di Smirne” (Rizzoli, 2009) erano già trascorsi cinque anni dalla pubblicazione de “La masseria delle allodole”, successo tanto grande quanto inaspettato per l’autrice, già docente di letteratura italiana all’Università di Padova. In quel lustro, dal libro divenuto icona letteraria del Metz Yegern, il “Grande male”, lo sterminio da parte del fanatismo ottomano di un milione e mezzo di armeni, era già stato tratto un film dei fratelli Taviani, stampate 14 traduzioni (ora anche di più) ed oltre venti edizioni in più di 200 mila copie.

Questo secondo libro che l’autrice dedica a quella che, in fondo, è la storia della sua famiglia, è il prosieguo di quanto ci è stato narrato ne “La masseria delle allodole”. Va da sé quindi che, per comprenderne appieno il senso e la cronologia delle vicende raccontate, ritengo fondamentale, se non indispensabile, aver già letto il primo, nel quale ci era raccontato delle stragi e delle deportazioni degli Armeni al tramonto dell’Impero Ottomano. Ciò è certamente di aiuto anche per meglio orientarsi tra i numerosi personaggi, dai nomi tutt’altro che facili per noi, le cui vicende si intrecciano. Ci corre in aiuto l’autrice che mette a disposizione l’albero genealogico familiare all'inizio del volume.

Questo secondo capitolo è ispirato al grande incendio di Smirne del settembre 1922, una sorta di déjà vu della violenta rappresaglia turca contro le minoranze che in quel luogo avevano trovato approdo sicuro sotto l’ala greca e lo sguardo distratto dei francesi, trasformando la ex città ottomana in un’improbabile quanto vitale comunità mercantile, crogiuolo di etnie, culture, tradizioni, profumi e sapori capaci di unire turchi, greci, armeni, levantini ed ebrei. In quel rogo bruceranno non solo le abitazioni, ma gli abitanti armeni e greci della città, i sogni espansionistici della Grecia, l’immagine da cartolina dell’Europa ottocentesca e cosmopolita. Si trasformeranno in cenere i sogni di una rinascita, le fotografie (unico ricordo degli scampati ai massacri del 1915), la speranza di ritorno nella perduta terra natia.

L’arrivo a Smirne dell’esercito turco per cacciare i soldati greci, guidato da Mustafa Kemal Atatürk, universalmente e storicamente riconosciuto come il padre della moderna Turchia, è l’epilogo delle vicende che la Arslan ci racconta nelle sei parti in cui si articola il libro e nelle quali si alternano il ricordo di Aleppo quale approdo dei sopravvissuti, il lungo viaggio in mare degli scampati, l’approdo in Veneto di chi è fuggito, le storie di chi è rimasto e anche quelle di chi è ritornato tra le montagne dell’infanzia cullando una speranza vana.

In tutto il libro, sin dalle prime pagine, si percepisce l’ansia dell’attesa. La sensazione di una tragedia che sta per incombere è costante. A tratti ci si illude, partecipi con i protagonisti, che le cose possano cambiare. Si spera in un improvviso, quanto improbabile colpo di coda del fato. Trovo davvero azzeccato il paragone che, sulle pagine di “la Repubblica” fece Guido Rampoldi accostando l’atmosfera del libro a quella vissuta dagli abitanti di Pompei prima della grande eruzione. La tensione è palpabile e, nello sfogliare le pagine, l’aria si riscalda come il vento che di lì a poco divorerà il quartiere armeno di Smirne e con esso i suoi abitanti.

Sebbene meno incisivo e emotivamente coinvolgente del precedente, in questo seguito, che riparte dal 1916, ci si sente però già in una sorta di piacevole intimità con i grandi protagonisti delle vicende raccontate, con gli artefici della salvezza dei sopravvissuti della famiglia Arslanian, la cui italianizzazione del nome in Arslan avvenne poco dopo ad opera del nonno dell’autrice. Essi sono la lamentatrice greca Ismene, il prete ortodosso Isacco e il mendicante tuttofare turco Nazim che, dopo aver salvato i bambini dell’orfanotrofio che avevano accompagnato da Aleppo a Smirne, dovranno affrontare il crudele scherzo di quello stesso destino che, qualche anno prima, li aveva sottratti alla furia dei turchi e delle tribù curde, cui i primi avevano lasciato campo libero a saccheggi, stupri, rapimenti sulle colonne di donne e bambini deportati dai loro villaggi sino al deserto e lasciati morire di fame, stenti e umiliazioni.

“Ora voi sprofondate nel fuoco di Smirne, Ismene, dolce sorella, Isacco, fratello, e con voi sprofondi Nazim l'astuto, il mendicante dai molti raggiri. Sprofondate nel gorgo, travolti dal Male, oscuro e occhiuto compagno delle menti degli uomini. Le vostre anime leggere sospinte da un vento che non dà tregua volteggiano, come farfalle perdute scendendo giù nell'abisso”. (“La strada di Smirne”)

Antonia Arslan sente la necessità di raccontare un dolore che, in fondo, è anche personale e per questo ben percepibile nel modo di scrivere su persone e luoghi, penetrando nel loro cuore e nei loro pensieri. Una sorta di profondo rispetto di quel nonno che ha voluto raccontarle cosa era accaduto al suo popolo e per omaggiare la diaspora familiare di parenti, zii, cugini (tantissimi) sparpagliati per il mondo: da Padova al Libano, dalla Siria al Brasile e agli Stati Uniti. Un riscatto per quel disperato e fallito tentativo di ritornare a “casa”, iniziato poco prima del rogo di Smirne proprio da Padova. Un sogno infranto: ritornare tra i monti dell’Anatolia dove approdò l’Arca dopo il diluvio, nella masseria delle allodole.

Nella città veneta si dipana invece la storia di chi, grazie agli eroi che ho poco innanzi citato, riuscì a sopravvivere allo sterminio e dopo un anno passato in una buia cantina di Aleppo ed un avventuroso viaggio in nave, approdò in Italia, dallo zio Yerwant (il nonno della scrittrice). Un ricongiungimento familiare dove Khayel (padre della Arslan) e il fratello Wart incontrano le cugine dell’oriente lontano. Due di loro, Nevart e Arrusiag, migreranno poi in America, mentre nella piana patavina resteranno Nubar (il maschietto sopravvissuto al sistematico e brutale annientamento degli uomini armeni perché vestito da bambina dalla coraggiosa mamma) e la piccola Henriette, zia dell’autrice. Zia prediletta, che le insegnò il francese con i dischi di Edith Piaf, ma tenne sempre e solo per lei il ricordo lontano di una famiglia e di una patria perduti per sempre.

"Mai gli armeni sembrano stanchi dei racconti di morte e sopravvivenza, mai ne hanno abbastanza del ripetuto orrore: è come se la pena condivisa apparisse più sopportabile quando diventa un racconto, il mito che si costruisce di un popolo martire, che nell'epopea dei suoi morti trova riscatto”. (“La strada di Smirne”)

Il genocidio armeno, una vera pulizia etnica mai riconosciuta dalla Turchia, rappresenta senza alcun dubbio una delle pagine più aberranti della storia dell’umanità. Una ferita, le cui cicatrici la Arslan mostra al mondo quale severo monito per il futuro. Post mortem, a detta di molti, che considerano quanto accadde in Anatolia come una sorta di prova generale per quello che i nazisti operarono poi contro gli ebrei in Europa. Tanto che in più di un’occasione qualcuno ha voluto accostare “La masseria delle allodole” e “La strada di Smirne” rispettivamente a “La tregua” e “Se questo è un uomo” di Primo Levi perché, come ha scritto su “Avvenire” Lorenzo Fazzini, entrambi i seguiti narrativi riguardano capolavori che “hanno aperto gli occhi su ‘buchi neri’ della storia”.

Una storia che per certi versi qualcuno nega o interpreta attraverso diversi punti di vista, nonostante numerosi intellettuali turchi, sfidando le severe leggi del loro paese, hanno chiesto al proprio governo di ammettere le responsabilità nel genocidio ed hanno formulato una istanza di perdono ai fratelli ed alle sorelle armene. C'è chi, tra le pieghe della storia, motiva la sistematica eliminazione degli Armeni come il risultato del timore che questi ultimi fungessero da testa d’ariete alla Russia, così come c’è chi ritiene che il genocidio sia oggi usato come spauracchio politico per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che tra l’altro ha ripetutamente ed inutilmente chiesto al governo turco di riconoscere i fatti del 1915. Difficile da pensare in quest’epoca di chiara ispirazione integralista e assai poco pluralista. Certo è che non si commette reato a riflettere sul fatto che, come ha detto in un’intervista la Arslan, “la Turchia è un paese di 73 milioni di individui con un alto tasso di natalità. Diventerebbe il Paese più grande d’Europa, più della Germania”.

Chi mi legge avrà certamente compreso che questo “La strada di Smirne”, così come il libro che lo ha preceduto, non è un semplice romanzo, ma ha la capacità di far sorgere in noi dubbi e domande. Di obbligarci (e non è male), in quanto esseri umani, ad un serio esame di coscienza. Resta indiscutibile il fatto, e questo libro lo conferma, che Antonia Arslan è una delle voci più importanti degli Armeni della diaspora, oltre che rappresentante e custode della memoria della piccola comunità armena italiana. ( )
  Sagitta61 | Oct 4, 2023 |
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