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Obres de Maria Pace Ottieri

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Mai scelta di titolo fu più corretta per descrivere il contenuto di un libro. "Il Vesuvio Universale", infatti, rima con "il diluvio universale", con una differenza di sostanza. Mentre nel "diluvio" gli elementi determinanti sembrano essere la terra e l'acqua, nel caso del Vesuvio c'è l'aggiunta del terzo elemento che in questo caso è l'interprete principale di questo spettacolo: il fuoco. Si spiegano così anche quei versi di Giorgio Caproni con i quali l'Autrice ha voluto presentare il libro ai suoi lettori:
"Ho provato anch’io. /E’ stata tutta una guerra/d’unghie. Ma ora so. Nessuno/potrà mai perforare/il muro della terra."

Ho letto alcune pagine di questo straordinario libro di Maria Pace Ottieri dalla vetta del Monte Chiunzi. Soltanto da questo spettacolare palcoscenico naturale, che si affaccia sull'antica Valle dei Sarrasti, attraversata dal fiume Sarno, si può comprendere a pieno la forza narrativa del libro. Per tutta questa sterminata, antica e ricca valle si sono infatti sempre, ad ogni eruzione, estesi i fumi, le piogge e la sabbia che da queste parti si chiama "rena".

Quella "rena" che arrivava sin sui tetti delle case della Città di Sarno, ai piedi del dirimpettaio del Vesuvio, il Monte Saro. Ricordo ben poco di quella eruzione del 1944, avevo solo cinque anni. In casa si raccontava che mio padre si beccò una terribile sciatica per liberare il tetto di casa dal peso della "rena", che poteva far venire giù il soffitto.

Questo libro non è un romanzo, nè un saggio o un reportage e neanche un racconto. Non è cronaca, giornalismo, storia, fantasia, o politica. Il libro della Ottieri è tutto questo. L'autrice ha seguito il consiglio del poeta Caproni nei versi citati all'inizio del libro: ha cercato di "perforare il muro della terra, con una guerra d'unghie". Che ci sia riuscita o meno, sta il lettore decidere alla fine della lettura del libro.

Un acquerello anonimo del 1812 sulla copertina segnala la volontà della scrittrice di non personalizzare il personaggio principale del suo racconto: un vulcano chiamato Vesuvio ha una valenza universale. Che alla radice di questo nome ci sia quello che ho detto essere il principale interprete di questa rappresentazione, il "fuoco", non sembra essere un caso. Avrebbe potuto scegliere uno dei tanti dipinti di artisti i quali nel corso dei secoli lo hanno ritratto in innumerevoli quadri, cercando di dare un volto e un nome a questo vulcano.

Matilde Serao raccontò di un giovane focoso di nome Vesuvio che si innamorò della giovane e pudica Capri. Ma sappiamo bene che è solo una favola. La verità è che "lui", il leopardiano "Sterminator Vesevo" significava "fuoco" in sanscrito “vasu“, in latino “vescia“, "favilla o scintilla", "Vesbio", condottiero dei Pelasgi, un popolo del mare che governava queste terre ben prima dell’avvento dei Greci.

Ci fu, addirittura, un sacerdote chiamato Camillo Tutini, seguace di Masaniello, che stravolse l’etimologia del Vesuvio in occasione di un’eruzione. Egli volle prendere l’accadimento eruttivo come un incitamento a ribellarsi agli oppressori spagnoli e ricondusse il nome del vulcano alla frase latina “vae suis” (“guai ai suoi”).

Altre interpretazioni come “Maevius” (“Mordace”), “Maeulus” (“Beffardo”) e, addirittura, “Lesbius” (“Osceno”) concorrono a fare di questo vulcano un vero "mostro". Comunque sia, i Campani di oggi hanno creato anche un "Vesuvio buono" per esorcizzarlo e ne hanno fatto un centro commerciale a Nola. La Ottieri non lo dice, me lo sono ricordato io. Il Bello, il Brutto e il Cattivo.

Il libro è suddiviso in diciassette capitoli. All'inizio di ogni capitolo l'Autrice apre una sorta di "finestra narrativa" stampata in corsivo dalla quale fa sentire la sua presenza sui vari scenari che si susseguono senza respiro nella sua scrittura. Il presente scappa dal passato ed anticipa il futuro, facendo diventare la sua narrazione prima cronaca, poi storia. Si susseguono fatti, persone, luoghi, eventi, attività, descrizioni, indiscrezioni. L'economia si fonde con la politica, l'umanità con la socialità, la lingua con il linguaggio.

Passato, presente e futuro scorrono davanti agli occhi del lettore invitato dalla Ottieri a "perforare quel muro della terra" e portarlo a rompere quello della comunicazione superficiale. Tenta di condurlo a capire quello che accade da sempre e che potrà ancora accadere in un previsto e prevedibile futuro. Sembra quasi come se ci volesse avvertire della necessità di una universale comunione contro una realtà sfuggevole, fragile e miseriosa allo stesso tempo. La sconfitta sembra destinata ad essere "universale".

Nessuno potrà mai scalfire quella barriera che è posta tra gli uomini e l’essenza profonda della terra, che diventa metafora dell’esistenza e della realtà. Nessun uomo potrà quindi avvicinarsi tanto all’essenza della terra, neanche dopo aver combattuto, anche con le unghie. La terra coltiverà sempre il suo segreto, lontano dagli uomini e dalla loro comprensione, restando un arcano segreto che nessuno potrà mai svelare, un muro che non può essere perforato dietro cui si cela la verità irraggiungibile del tutto. Le sue parole alla chiusura del libro sembrano non dare speranza:

"Il vulcano allena i suoi abitanti a vivere in una vacillante realtà sempre sull'orlo della dissolvenza, della metamorfosi, a riempire il vuoto al centro, il cratere nella vita di ognuno, con l'immaginazione, trovando nell'invisibile il senso più vero dell'essere al mondo".

Fatalismo? Destino? Caso? Determinismo sociale? Provvidenzialismo? Incoscienza? Passività? Come potrà il "meschino" di leopardiana memoria de "La Ginestra" sfuggire al "flutto rovente/che crepitando giunge, e inesorato/durabilmente sovra quel si piega"?

L'altro ieri, ieri, oggi e domani. Come sempre, cercando di riempire quel "vuoto al centro" del vulcano e che si trova anche in ognuno di noi. Un "vuoto" fatto di "mistero". Qoelet lo chiamò "hebel"-"nebbia". Un mistero che vale "cinque stelle".
… (més)
 
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AntonioGallo | Oct 9, 2019 |

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